Codogno, l’emozione del primario in una lettera
Chiusa ieri l’Area Covid di Codogno. Presidio che è stato una delle trincee contro il coronavirus Sars-CoV-2 nella prima zona rossa d’Italia. E’ un giorno da ricordare, quello in cui è stato dimesso l’ultimo paziente che ha vinto la malattia.
Codogno è stata la città simbolo della prima ondata di Covid-19, la prima a diventare zona rossa, dopo la scoperta dell’infezione del paziente uno nel febbraio del 2020.
Un segno, dopo tanti mesi di lutti e sofferenze, di ritorno alla vita.
Hanno dato la notizia, la Asst di Lodi e Francesco Tursi, responsabile del servizio di Pneumologia e referente dell’Area Gialla Covid del nosocomio della cittadina tra Lodi e Piacenza, impegnato per oltre 15 mesi nella lotta al coronavirus.
“È un giorno che vivo con profonda emozione”, ha scritto Tursi che ha voluto scrivere una lettera, indirizzata al direttore generale Salvatore Di Gioia, in cui ringrazia “tutti gli infermieri uno ad uno (citando i loro nomi, ndr) che si sono spesi senza risparmiarsi, mettendo a rischio anche la propria vita per il bene dei nostri concittadini”. Poi i ringraziamenti ad ausiliari, Oss, addette alle pulizie, fisioterapisti e giovani medici. E, alla fine, il medico ringrazia anche i pazienti “che hanno condiviso con noi questo periodo così delicato della vostra vita, spero che tutti noi siamo stati in grado di essere all’altezza delle vostre aspettative. Posso solo dirvi che noi dell’Area covid di Codogno ce l’abbiamo messa tutta. Grazie per le numerose testimonianze di affetto nei nostri confronti che ci hanno commosso e gratificato. Nulla è stato pari al volto anche solo di un paziente che avevamo aiutato a guarire, vedere nei suoi occhi battere la vita. Risalire alla vita, come lentamente tutti stiamo facendo ai margini di un momento che verrà ricordato nei libri di storia. Sono stati per me – conclude Tursi – i mesi più intensi della mia vita e voi l’avete resi memorabili nel mio cuore e nella mia mente”.
“Ho curato i miei pazienti – ha proseguito Tursi – come se fossero i miei genitori. Amo l’essere umano, cercare di farlo guarire è la mia vita”. Anche il medico si ammalò durante la prima ondata della pandemia. “Ho voluto che i miei pazienti non fossero soli. Non si sentissero mai soli. Ho voluto stessero il più possibile a contatto con noi sanitari, proprio come fossimo una famiglia. Gli curavamo la pettinatura, gli portavamo il caffè: a volte anche la brioche. I pazienti non sono tutti uguali: noi abbiamo voluto prenderci cura di loro onorando i loro bisogni individuali. In questi tempi, nella nostra professione ci abbiamo messo tutta la passione che, forse, negli ultimi tempi, era andata un po’ a perdersi. Ci abbiamo messo – conclude il medico commosso – cuore e passione. Un giorno, un paziente appena guarito, ci ha detto: ‘Grazie per l’amore che ci avete dato: questa frase mi ha completamente spiazzato”.