Dal 1950 ai nostri giorni, e oltre, si dipana tutto lo sviluppo delle autostrade italiane e, oggi, soprattutto europee.
E’ infatti in quell’anno che nasce, per la prima volta in Italia, su progetto IRI e su indicazione diretta di Amintore Fanfani, la Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.A. i tentativi del regime fascista saranno sporadici e privi di rilevanza politica e strategica.
Anni straordinari, quelli della ricostruzione, quando nel 1946 il discutibile mito della nostra teoria finanziaria attuale, ovvero il debito pubblico, si assestava al 40%.
Il piano di aiuti Usa UNRRA e Marshall del 1952, tenne sempre, è bene dirlo, il rapporto debito/Pil al 42%, ma con un aumento del reddito medio degli italiani che raggiunse prima il 6% e poi, dal 1963, ci fu una crescita del Pil dal 9 all’11% l’anno, roba da Cina oggi.
La Linea di Donato Menichella, governatore di Banca d’Italia in quegli anni, lo ricordiamo, fu quella di Einaudi: sostegno al cambio, fissato nel 1949 a 625 lire/dollaro e soprattutto controllo dell’inflazione. E poi Fanfani.
L’uomo che bloccò la cessione dell’Agip agli Usa e dette inizio all’ENI, con Mattei. Il leader politico che immaginò una Italia neo-atlantica, certo, ma paritaria tra i due blocchi e capace di penetrare il Medio Oriente come se fosse un lukum al miele.
Su consiglio di La Pira, certo, ma con l’idea di un Paese, l’Italia, che correva da solo la grande avventura dei rapporti inevitabili con il Medio Oriente (e allora l’Egitto, soprattutto) e da questa appendice produttiva generava il sovraprofitto necessario per la ricostruzione italiana senza inflazione.
Quanto deve quindi l’Italia allo “statalismo” cattolico e alla tradizione del Codice di Camaldoli? Un mondo.
Il Codice fu anche la creazione di una classe di dirigenti di altissimo livello, cattolici e anche no, talvolta, che avrebbe innervato la ricostruzione sapendo che l’apertura, allora, ai venti del mercato-mondo avrebbe distrutto definitivamente il nostro Paese, ma che l’autarchia idiota lo avrebbe murato nel sottosviluppo e nell’isolamento.
Ma torniamo alle Autostrade: la prima convenzione tra la società Autostrade e l’ANAS si ebbe nel 1956, per cofinanziare, costruire e gestire l’Autostrada del Sole tra Milano e Napoli.
Poi, tanti anni dopo, nel 1982, ci fu la costituzione del “Gruppo Autostrade”, con l’aggregazione di altre concessionarie del settore.
Nella stagione delle privatizzazione degli anni 90, si crea una nuova società privata che nel 1999 versa 2,5 miliardi per rilevare il 30%, finanziando l’investimento di Autostrade per l’Italia con 1,3 miliardi di capitale di rischio e il resto a debito.
Poi, con gli incassi dei pedaggi pari 11 miliardi l’anno, cresciuti peraltro in quegli anni del 21%, la società privata lancia l’OPA totalitaria per 6,4 miliardi, tramite una società veicolo fusa, poi, con la stessa Autostrade.
Nel 2003 nasce, quindi, “Autostrade per l’Italia”, poi arriveranno anche le diversificazioni all’estero, ma fui proprio io che riuscii ad allungare la durata della concessione dal 2018 al 2038; risultato conseguito due anni prima della privatizzazione grazie anche al rapporto personale ed efficace, con il commissario Loyola De Palacio, che comprese perfettamente i termini del problema, condividendo l’esigenza di mettere a punto una strategia autostradale da parte dell’Unione Europea senza la quale non si fa una politica dei trasporti innovativa e non si assicura una mobilità libera di persone e merci.
Infatti senza un progetto europeo, fin dalla progettazione stessa, non ci saranno più vere autostrade, né in Italia né altrove, perché le infrastrutture, siano esse terrestri o di altro genere, o sono oggi europee o non hanno ragion d’essere.
Si pensi, qui, alla Belt and Road cinese, o alle altre reti tra Nord e Sud dell’Europa, compreso il Maghreb e il Medio Oriente.
Ogni chilometro di autostrada genera oggi, lo dice banca d’Italia, un ricavo medio per 1,1 milioni di euro: 300.000 tradizionalmente destinati allo Stato e 850.000 alle concessionarie.
Dalla privatizzazione i ricavi delle concessionarie sono più che raddoppiati mentre il ritardo infrastrutturale, sempre da una analisi della Banca d’Italia, non è quindi riconducibile a una carenza di risorse ma alla insufficiente capacità di spesa.
Le risorse finanziarie disponibili negli ultimi anni sono in linea con quelle degli altri Paesi europei, ma addirittura superiori alla media di Francia, Germania e Regno Unito, ma manca, in Italia, un sistema di bilancio con obiettivi pluriennali per le categorie di spesa e manca il coordinamento tra le diverse agenzie del Governo.
Ma la storia delle Autostrade italiane è lunghissima, figlia di quella commistione tra tradizione (le strade romane, che arrivavano in tutta Europa) e progresso (le Autostrade dell’IRI) che caratterizza il paradigma della innovazione italiana.
Fu nel 1923 che l’Ing. Puricelli formulò un progetto di queste strade, senza incroci a raso con altre strade, riservate al traffico veloce delle auto e che esclude ogni altro veicolo, ma con il pagamento di un pedaggio.
Si noti che nel 1923 circolavano in Italia circa 84.000 veicoli a motore, di cui 57.000 automobili.
Ma fu solo nel 1933 che lo Stato fissò, a livello legislativo, una definizione delle nostre autostrade.
E furono costruiti, nel nostro Paese, allora, 500 chilometri di autostrade: la Milano-Laghi, nota a chiunque legga Carlo Emilio Gadda, la Milano-Bergamo del 1927, la Firenze-Mare, la Napoli-Pompei, la Milano-Torino.
Una bellissima esperienza, che fu essenziale per ripetere il grande progetto delle Autostrade postbellico.
Si ricordi, poi, che tra il 1956 e il 1964 facemmo ben 755 chilometri di Autostrada del Sole, con 113 viadotti e ponti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 57 raccordi, con una media di 94 chilometri di strada finita all’anno, e su uno dei tracciati più difficili del mondo.
Con la legge Zaccagnini del 1961 vengono affidati alla Società Autostrade tutte le reti precedentemente gestite dallo Stato. Poi, fu Fedele Cova a inventare il meccanismo stesso della concessione: il cambio, appunto, di una concessione di 30 anni, l’IRI si impegnava a gestire le autostrade, ma si impegnava anche a costruirle. Altri tempi.
E, sempre qui, è ancora presente il progetto delle autostrade europee: senza un progetto ampio, non si va da nessuna parte.
Quando ho presieduto l’ASECAP, l’Associazione Europea dei Concessionari di Autostrade e di Opere a Pedaggio, ho scoperto una associazione che gestisce, indirettamente, ben 18.000 chilometri di passaggi autostradali a pagamento in tutta la UE.
Dove potrebbero passare comodamente anche linee di comunicazione digitale, reti di informazione, 5G, TV via cavo, reti telefoniche standard, e ogni altra comunicazione moderna.
Perché non utilizzarle? E perché non espanderle?
Si tratterebbe, in effetti, di passare, con un regime omogeneo, da una semplice associazione tra gestori di strade a pagamento a una rete europea di sistemi di investimento e di contrattualistica della strada a pedaggio, che garantisca nuovamente il costruttore, che è di solito lo Stato, e che metta in azione davvero in concessionario, che è di solito un semplice investitore.
E che, magari, crei un Fondo Comune per le Autostrade (e per tutte le reti Ultra-Veloci) per completare e unificare le vie automobilistiche, e altro, che dovranno, ancora, passare per l’Europa.
Dal 2017 le gare autostradali, per la loro costruzione, valgono circa 20 miliardi.
Non sappiamo come vadano, visto che ognuna ha una sua storia, più legale che tecnologica.
Certo, oggi in Italia ci sono almeno 7mila chilometri di autostrade, di cui meno di 6 mila sono in regime di concessione a società private. La Legge Romita, che era ingegnere di professione, nata nel 1955, prevede che in ogni Regione ci siano infrastrutture di carattere di “strada veloce”.
Oggi, tra le 25 concessionarie autostradali ci sono tutte le famiglie del capitalismo italiano.
Si tratta comunque di un “monopolio naturale” che viene circoscritto solo dall’Alta Velocità ferroviaria, che riguarda però solo alcune tratte.
C’è, poi, un vecchio progetto ASECAP, al quale sono molto legato trattasi della costruzione di una rete di autostrade, con investimenti privati, nei Paesi dell’est, che erano all’epoca candidati e, oggi, sono in grandissima parte membri dell’Unione Europea. Un progetto che immaginai con Loyola de Palacio che si basava su criteri di interoperabilità e di intermodalità, per lo sviluppo di una ampia rete davvero europea. Una linea autostradale, certo, ma con supporti tecnologici e di trasferimento-dati che passano sulla stessa linea, ben controllabili e gestibili ogni giorno, per non parlare di tutta una rete ferroviaria locale che parte dalla Autostrada e arriva ovunque, per legare davvero la rete delle automobili, che saranno ancora uno dei modelli e prodotti del nostro storico sviluppo economico, e le reti locali, mobili o immobili.
Ad oggi non mi risulta che tale progetto abbia trovato adeguato sviluppo.
Se non immagineremo ancora un progetto europeo, terrestre, tecnologicamente evoluto, tale inoltre da penetrare il territorio, il che riguarda anche la sua sicurezza, esterna e interna, non avremo una nuova ripresa dell’economia UE.
A proposito di tecnologie mi piace ricordare la realizzazione del telepass frutto della intuizione e studi del centro ricerche di autostrade; strumento che ancora oggi, a quasi trent’anni dalla messa in esercizio si è affermato come il miglior sistema in uso sulla rete autostradale europea.
Per concludere, la mia visione imprenditoriale aveva previsto di realizzare un progetto di integrazione fra l’Europa e il Mediterraneo, lungo un asse che andava dai Paesi europei a Israele e verso i mercati asiatici allora emergenti, come quello della Cina. Nel mio grande piano programmatico, il mio Paese, l’Italia, con seimila chilometri di autostrade a pedaggio, avrebbe assunto un ruolo di primaria importanza, assicurandole la centralità strategica, anche dal punto di vista, geopolitico.
Giancarlo Elia Valori