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Allai, “Palcoscenici d’estate”: domani in scena “La società del malessere”, l’omonimo saggio di Giuseppe Fiori

Viaggio nel cuore dell’Isola a metà del Novecento, insieme con il ritratto di un moderno bandito tra imprese ormai leggendarie e delitti crudeli, con “La società del malessere”, coinvolgente spettacolo tra parole e note tratto dall’omonimo saggio di Giuseppe Fiori, in cartellone sabato 12 agosto alle 22 in piazza Santo Isidoro ad Allai (OR) per un nuovo appuntamento con la V edizione del Festival “Palcoscenici d’Estate” organizzato dal Teatro del Segno con la direzione artistica di Stefano Ledda e realizzato con il patrocinio e il sostegno del Comune di Allai e della Regione Autonoma della Sardegna.

Sotto i riflettori Antonio Luciano (voce narrante) e Andrea Congia (alla chitarra e al synth, sue anche le musiche originali) per una performance di grande suggestione incentrata sulle vicende di Graziano Mesina, sullo sfondo di una Sardegna in bilico fra la civiltà agro-pastorale e il miraggio della modernizzazione, nel contrasto fra la dura esistenza dei pastori e la ricchezza dell’alta borghesia, oltre allo sfarzo e al lusso degli esponenti del jet set internazionale.

La società del malessere” – una produzione di Tra Parola e Musica / La Casa di Suoni e Racconti e Abaco Teatro – ricostruisce sulla falsariga del libro del giornalista e scrittore, in chiave di reportage tra interviste, testimonianze e cronache di omicidi e sequestri, l’epopea di un giovane ribelle, audace e astuto, dal temperamento ardente, imprigionato nella spirale fatale di una giustizia imperfetta e di un forte, perfino feroce senso della famiglia e degli affetti, per cui è disposto a sacrificare la vita e la libertà. Focus sulla figura intrigante, pur tra luci e ombre, di Graziano Mesina, oltre il mito del fuggiasco inafferrabile, con le sue le celebri evasioni, fino all’ultima cattura: un «eroe al contrario» insieme vittima e carnefice sullo sfondo di una Barbagia contaminata dal consumismo ma lontana dagli effetti benefici dell’industrializzazione e del progresso, tra il retaggio di una cultura arcaica e le aspirazioni ad una condizione, se non di agiatezza, di relativa sicurezza al riparo dalle intemperie e dagli imprevisti.

Un interessante e istruttivo affresco dell’Isola, con tutte le sue contraddizioni e le mutazioni profonde, le responsabilità della politica e dello stato, concepito come un potere distante se non assente, pronto a manifestarsi in forme coercitive, affiora dalle pagine del saggio di Giuseppe Fiori, che dà spazio alle riflessioni dei conterranei di uno dei più famosi criminali italiani.

In una sorta di montaggio alternato cinematografico, quasi una narrazione corale, le storie di donne e uomini di Orgosolo, tra il ricordo di antiche faide, come quella dei Corraine e dei Cossu cui si lega la vicenda di Paska Devaddis e l’abitudine ai fatti di sangue e agli scontri tra forze dell’ordine e banditi, in un clima di intimidazione e paura, s’intrecciano a disegnare lo scenario in cui emerge la personalità inconfondibile di “Gratzianeddu”, dapprima per il suo spirito indocile e irrequieto, quel gusto della sfida che conserverà fino alla fine, poi per le sue azioni temerarie e i suoi efferati delitti, ma ancor più le rocambolesche fughe e la lunga latitanza, protetta dal silenzio e dall’omertà.

La “primula rossa” del banditismo sardo, ammantata di una sorta di romanticismo, in virtù delle straordinarie abilità e dell’innegabile coraggio, è diventata nell’immaginario collettivo una incarnazione, suo malgrado, di un’ipotetica “rivoluzione” capeggiata dai pastori, mai avvenuta ma spesso vagheggiata, sul modello cubano e perfino su quello cinese, come una sollevazione contro i privilegi in nome dell’uguaglianza e fraternità tra i popoli.

Ne “La società del malessere” l’autore di “Sonetàula”, “Baroni in laguna” e “Il cavaliere dei Rossomori”, fedele alla sua professione di giornalistica, privilegia un taglio quasi documentaristico, lasciando spesso la parola a coloro che quella stravagante temperie determinata da una sorta di scontro tra civiltà, avente come epicentro la Barbagia l’hanno sentita e sperimentata direttamente sulla propria pelle, mettendo a confronto i destini e interrogandosi sulle molteplici cause di un fenomeno come il banditismo, con radici nell’asprezza di una vita quasi selvaggia, a contatto con la natura, in una continua lotta per la sopravvivenza e nell’atteggiamento inutilmente brutale e repressivo del potere centrale, poi degenerato nella cupa stagione dei rapimenti. Il saggio illuminato da una scrittura sapiente, cui bastano pochi semplici tratti e alcune considerazioni significative per dipingere un carattere o evocare un paesaggio, fonde lo studio antropologico all’analisi economica e politica, la ricostruzione storica e la coscienza di una sconfitta, con il ricordo delle illusioni perdute e dei sogni infranti. La figura di Graziano Mesina è il fulcro del racconto, ma la storia incominciata molto tempo prima prima della sua nascita, con la famigerata “legge delle chiudende” e il ricordo dei tumulti per chiedere il ritorno a “su connottu”, e con la nascita di una borghesia frutto non solo e non tanto di sana operosità e morigeratezza quanto di spregiudicatezza e abusi e il conseguente depauperamento delle classi più deboli, giunge nella sua fase critica nel momento in cui le regole non scritte del mondo agro-pastorale si scontrano con le leggi ufficiali. L’avvento del consumismo, la speranza di facili guadagni, il generale contesto dominato dalla corruzione e dal venir meno dei valori morali, favoriscono l’affermarsi di una nuova criminalità organizzata, quasi un’industria dei sequestri, con oscuri “mandanti” e semplici ma spesso spietati esecutori, dove i latitanti, gli eredi degli antichi “banditi”, svolgono un ruolo importante anche grazie al loro “prestigio”.

Il saggio di Giuseppe Fiori non fornisce delle risposte, induce semmai a porsi delle domande sulle responsabilità e sulle cause di quel che è accaduto, e offre uno sguardo differente sullo stesso “eroe” in negativo, quel Graziano Mesina, improbabile tombeur de femmes sommerso dalle lettere delle ammiratrici, attratte dall’ambiguo fascino del fuorilegge ma anche simbolo di rivolta contro le sopraffazioni, di cui restituisce per un breve istante tutta l’umanità e tutta la fragilità, subito celate dietro la maschera impenetrabile del bandito.

 «Il flagello industriale e il miracolo della modernità fanno il loro ingresso nella scena sarda» – sottolinea Andrea Congia nella presentazione, ricostruendo la temperie degli Anni Sessanta – «La Sardegna, intanto, vomita i suoi figli nel Mondo. Il Deserto della Giustizia Istituzionale avanza lento. Banditi, Acrobazie, Poliziotti, Fughe… Emerge la figura di Graziano Mesina. Un funambolo astuto in un Circo ricco, rotto e vuoto»… In scena una vicenda emblematica che rivela «il bisogno, nero, di Idoli».

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