Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è recato, oggi 24 Settembre 2020, a Sassari per ricordare la figura del Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, nel decimo anniversario della morte.
La cerimonia commemorativa, che si è tenuta nell’Aula Magna dell’Ateneo, è stata aperta dai saluti del Sindaco di Sassari, Gian Vittorio Campus, e del Presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas.
È quindi intervenuto il Rettore Massimo Carpinelli con una relazione dal titolo “Francesco Cossiga: uomo di cultura, uomo di Stato”.
La cerimonia si è conclusa con l’intervento del Presidente Mattarella.
Al termine, il Capo dello Stato ha deposto due cuscini di fiori presso le tombe dei Presidenti emeriti Francesco Cossiga e Antonio Segni, al Cimitero comunale.
Il discorso del Capo dello Stato a Sassari:
Sassari, 24/09/2020
– Rivolgo un saluto molto cordiale a tutti i presenti, al Presidente della Regione, al Sindaco e, attraverso di lui, a tutti i suoi concittadini.
Al Magnifico Rettore un saluto e un ringraziamento per l’accoglienza, pregandolo di trasmettere al Corpo docente, agli studenti e al personale tecnico-amministrativo il saluto e gli auguri che non mi è stato possibile recare direttamente in occasione dell’apertura dell’Anno accademico.
Ricordare Francesco Cossiga nell’Università che lo vide studente e poi brillantissimo e apprezzato docente è un omaggio alle sue radici, umane e intellettuali, e allo spessore con cui si è reso protagonista della vita politica e istituzionale del nostro Paese nell’arco di mezzo secolo.
Al tempo stesso è un tributo a questo Ateneo – che vive il suo quinto secolo, e lo vive bene, verso il futuro – il solo tra gli atenei d’Italia ad aver avuto nel proprio corpo docente due presidenti della Repubblica, Francesco Cossiga e Antonio Segni, che è stato – come abbiamo ascoltato e come sapevamo – Magnifico Rettore di questo Ateneo.
Desidero ricordare anche che questa Università ha avuto tra i suoi docenti tre Presidenti della Corte Costituzionale e un Premio Nobel.
Il legame tra Cossiga, Sassari e la Sardegna è sempre stato forte e profondo, andando ben oltre la pur rilevante dimensione familiare e affettiva.
Del rilievo di queste origini il presidente Cossiga ha sempre parlato come di un insieme di valori etici e culturali, del retaggio di una comunità capace di tenere insieme ruvidità nel linguaggio e pudore nei sentimenti, contrasto nelle idee e amicizia tra le persone.
La famiglia, inserita in una ampia e feconda rete di relazioni nella società sassarese, è stata per lui anche la palestra dove ha potuto coltivare, sin da giovane, la passione politica. Palestra nella quale si è allenato al pluralismo, al confronto, alla laicità delle scelte e dove, ha poi sottolineato lo stesso presidente Cossiga, “l’antifascismo era un fatto discriminante non solo dal punto di visto politico ma morale”.
È in questo ambiente che ha sviluppato quella “sensibilità per l’unità delle forze democratiche”, che nel tempo si è affermata come tratto qualificante del suo impegno politico.
Francesco Cossiga si iscrisse alla Democrazia Cristiana nel 1945, quando aveva appena 16 anni.
Volle notare, nel suo discorso di insediamento come Capo dello Stato, di essere il primo Presidente a non appartenere “alla generazione di coloro che meritatamente si possono definire padri della Patria, cioè a quegli uomini che hanno lottato per la libertà, per l’indipendenza e per la democrazia dell’Italia e che hanno contribuito in questo segno alla nascita della Costituzione repubblicana”.
Fu nel crogiuolo di idealità e speranze del dopoguerra, alimentate dalla libertà appena riconquistata e dalla responsabilità che si avvertiva nei confronti della rinata democrazia, che Cossiga formò il suo pensiero e cominciò a prendere parte al confronto pubblico.
Agli studi di diritto si affiancarono, già in età giovanile, le letture di Jacques Maritain e Antonio Rosmini, di Tommaso Moro e Gabriel-Honoré Marcel. Sentiva di voler misurare la sua fede cristiana nella costruzione di una società libera, democratica e pluralista e la Fuci fu anche per lui, come per altri prestigiosi dirigenti della Dc, una scuola di umanesimo, in cui il sapere teologico – da Sant’Agostino a San Tommaso – veniva portato al confronto con la modernità incalzante di una società che usciva dalla guerra e desiderava dare solidità a un percorso di sviluppo civile.
Al principio di laicità dello Stato Cossiga è rimasto sempre fedele. Nel suo dichiararsi “cattolico liberale” c’era un ossequio, un rispetto per la casa comune e per la sovranità delle istituzioni della Repubblica, che non concedeva spazio a tentazioni confessionali o integralismi di sorta.
Convincimenti che approfondiva volentieri anche attraverso gli amati classici del diritto e della filosofia anglosassone, ragioni non secondarie della sua capacità di dialogo, nel partito in cui militava e con personalità di partiti avversari.
Laureatosi giovanissimo in giurisprudenza, mentre cominciava a inoltrarsi nell’impegno politico a partire dalla realtà cittadina, Francesco Cossiga intraprese la carriera accademica come docente di diritto costituzionale, avendo come maestro Giuseppe Guarino.
Grande attenzione manifestò, nel suo primo lavoro pubblicato nel 1950, al tema dell’autonomia regionale e alla pari dignità di ogni assemblea legislativa, fosse essa il Parlamento nazionale o i Consigli regionali.
È stato osservato come, già in questi scritti, emergesse in Cossiga un’idea di Costituzione fondata su presupposti di valore che ne orientavano l’attuazione e l’interpretazione.
In un saggio del 1951, dedicato al diritto di petizione, il professor Cossiga sottolineava la necessità del contributo della partecipazione attiva dei cittadini alla costante rigenerazione democratica, necessaria per consolidare i principi della Carta: “La caratteristica peculiare degli ordinamenti democratici – scriveva infatti Cossiga – prima e più ancora che da una organizzazione formale degli organi costituzionali, è data da una effettiva partecipazione della base popolare alla vita dello Stato”.
Una tensione che dal giovane studioso si è poi trasmessa nell’azione all’uomo di Stato e di cui troviamo traccia anche nella dichiarata aspirazione, all’atto del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica, di essere espressione della gente comune.
Francesco Cossiga bruciò i tempi anche in politica, assumendo dal ’56 la responsabilità della guida provinciale del suo partito, insieme a un gruppo che promosse a Sassari un cambio generazionale e che prese il nome, provocatorio, di “giovani turchi”.
A dire il vero, Cossiga spiegò in seguito come la provocazione fosse in realtà un’ironia e una sfida che il gruppo rivolgeva a se stesso, “una sofisticheria intellettuale un po’ velenosa per ricordare ai giovani congiurati sardi che, tornato al potere, il sultano turco aveva decapitato tutti gli ufficiali ribelli senza pietà”.
Cossiga fu eletto per la prima volta deputato nel 1958, a trent’anni. Idealità e pragmatismo, fedeltà ai principi e attenzione alla concretezza della vita sociale divennero i parametri del suo lavoro parlamentare e della sua militanza politica.
A questa scuola si formava la classe dirigente di governo: nel confronto talvolta aspro sui principi ma sempre orientato a composizioni – sul piano delle norme come su quello dei riflessi sociali – capaci di evitare conflitti laceranti e di sospingere il Paese sulla strada della stabilità e di un maggior benessere.
Dirà Francesco Cossiga il giorno del giuramento come Presidente della Repubblica, citando Elias Canetti: “Schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti della storia dello spirito umano”. E questa fu la sua chiosa personale: “Sotto le motivazioni ingannevoli di avventurose spedizioni intellettuali in terre remote, spesso si nasconde il tentativo ‘di evitare quanto ci sta dappresso’, l’incapacità di volgerci a quanto vi è di più vicino a noi e di più concreto”.
L’alleanza atlantica e la scelta europea furono pilastri nelle convinzioni di Cossiga e del suo impegno, anche istituzionale. In questo si può cogliere quella saldatura tra ideale e reale, tra progettualità e concretezza, che ha caratterizzato il profilo dell’uomo politico Cossiga come, del resto, le parti più qualificate della sua generazione di governo.
La sua prima esperienza nell’esecutivo cominciò nel 1966, come sottosegretario alla Difesa, e da subito gli vennero affidati incarichi particolarmente delicati.
I problemi aperti dalla vicenda del “Piano Solo” lo videro impegnato nella promozione di un rinnovamento della struttura stessa dei Servizi di informazione e sicurezza, in coerenza con l’ordinamento democratico del Paese.
Del processo di riforma dei Servizi, sollecitato anche dal Parlamento, Cossiga fu indubbiamente tra i maggiori artefici.
Esperienze e competenze che rafforzarono in Cossiga la convinzione che le questioni di sicurezza nazionale non fossero di ordine puramente interno, bensì anche temi cruciali dell’azione di governo e della sua politica estera.
L’atlantismo di Cossiga restò un punto fermo, anche nel suo tenace europeismo.
La convergenza sulla politica estera tra i partiti costruttori della Costituzione era ancora di là da venire negli anni Settanta, eppure Cossiga continuò a esprimere una propensione al confronto sia verso i partiti laici e socialisti, alleati della Dc, sia rispetto all’oppositore Partito comunista.
Nel 1976, il suo dialogo, da Ministro dell’Interno, con il gruppo dirigente del Pci divenne uno degli snodi più importanti della collaborazione nella maggioranza di solidarietà nazionale.
Una relazione che, pur tra robuste differenze che persistevano, favorì in misura significativa quell’unità di popolo, indubbiamente decisiva per la vittoria sul terrorismo.
Cossiga assolse al suo mandato al Viminale in un clima di violenza che aveva superato il livello di guardia.
La minaccia brigatista puntava a condizionare, a impedire, il regolare svolgimento dei processi ai terroristi. L’aggressione colpiva magistrati, uomini delle forze dell’ordine, giovani, giornalisti, dirigenti.
Cossiga fronteggiò l’attacco alla Repubblica e difese le istituzioni democratiche con il consenso del Parlamento, nel rispetto dello Stato di diritto e cercando di preservare, come bene indispensabile, l’unità delle forze democratiche nella lotta al terrore e all’eversione.
Il ricorso a norme e a strumenti nuovi restò sempre iscritto nel solco della difesa dei valori e dell’ordine costituzionale. E il contrasto alle vulgate insurrezionaliste, così come alla inaccettabile predicazione equidistante di fautori del “né con lo Stato, né con le Br”, fu da parte di Cossiga sempre netto e scevro da ipocrisie e opportunismi.
Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, con la strage degli uomini di scorta, fu un colpo tremendo e uno spartiacque nella sua vita. Come fu uno spartiacque nella storia della Repubblica.
Il Ministro Cossiga si adoperò per la liberazione di Moro, suo amico e punto di riferimento politico, ma gli sforzi non giunsero al risultato sperato e la sofferenza fu acuita da quel susseguirsi di lettere di cui ebbe a riconoscere tratti di autenticità.
Al momento del ritrovamento del corpo dello statista assassinato dette esecuzione al suo proposito di dimissioni, “assumendosi la piena responsabilità politica dell’operato del dicastero”.
Tenne comunque a precisare: “Sono in coscienza convinto di non essermi fatto guidare nella mia azione di governo da nient’altro che non fosse l’interesse dello Stato ed il bene della comunità civile”.
Cossiga restò lontano da ogni incarico pubblico per poco più di un anno. Fu richiamato dal Presidente Pertini, come Presidente del Consiglio, per risolvere la difficile crisi di inizio legislatura nel 1979.
Anche quella fu una stagione di profondi cambiamenti geopolitici: l’occupazione dell’ambasciata statunitense a Teheran fece seguito alla rivoluzione iraniana; l’Urss decise l’invasione dell’Afghanistan; in ambito internazionale si aprì un ciclo neo-liberale che avrebbe dispiegato i suoi effetti nel processo di globalizzazione.
Il governo Cossiga, che – dopo la chiusura dell’esperienza della solidarietà nazionale – si muoveva verso una ricomposizione dell’alleanza tra la Dc, il Psi e i partiti laici, si trovò di fronte a una scelta rilevante, conseguente alla rinnovata competizione Est-Ovest sugli armamenti.
La decisione sovietica di procedere alla installazione di nuovi missili a corto raggio in Cecoslovacchia e Germania dell’Est aveva suscitato forti preoccupazioni in alcuni governi occidentali, per la possibilità del divampare di un conflitto con armi nucleari limitato al teatro europeo, creando così un potenziale sganciamento in ambito Nato tra difesa statunitense e difesa degli alleati europei. Una preoccupazione particolarmente avvertita dai governi di Paesi come la Repubblica Federale Tedesca e quelli del Benelux che si sentivano più direttamente minacciati.
In sede di Alleanza Atlantica si decise per una risposta collegiale di cui l’Italia si rese co-protagonista, decidendo di ospitare – nella base di Comiso – unitamente alla Germania Federale, al Belgio e ai Paesi Bassi, i missili Cruise, mentre i Pershing2 furono destinati in Gran Bretagna.
Un atto di volontà che contribuì, unitamente all’impegno italiano nell’ambito della missione Onu in Libano, a profilare l’Italia repubblicana come capace di assumere responsabilità geostrategiche di rilievo.
Una scelta, quella del governo guidato da Francesco Cossiga che consolidò, fra l’altro, l’amicizia con il cancelliere Helmut Schmidt e il rapporto italo-tedesco, e ribadì il valore strategico di scelte comuni di deterrenza in ambito europeo.
La questione tedesca fu sempre presente al leader sardo che si spese in favore della riunificazione delle due Germanie e questo gli venne riconosciuto nella solenne occasione della cerimonia ufficiale per la riunificazione tedesca, il 3 ottobre 1990: il Presidente della Repubblica italiana fu, infatti, il Capo di Stato straniero invitato nell’occasione.
Nel 1983 Francesco Cossiga che, con il suo secondo governo, aveva ripreso il dialogo con il Partito Socialista, venne eletto Presidente del Senato con una larghissima maggioranza.
Alla guida di Palazzo Madama, Cossiga si fece apprezzare per solidità e imparzialità.
Questa fu premessa all’elezione a Presidente della Repubblica, il 24 giugno 1985, che avvenne al primo scrutinio – cui posso ricordare di aver personalmente partecipato – con il consenso di oltre tre quarti dei grandi elettori, espressione di volontà unitaria nel sostenere la Presidenza della Repubblica come presidio di coesione del Paese attorno ai valori della Costituzione.
Alla metà degli anni Ottanta, pur con un ciclo economico espansivo, si affacciavano interrogativi sulla modernità del sistema politico e istituzionale, con tensioni crescenti nel rapporto con la società civile.
Il Presidente Cossiga visse dal Quirinale una stagione di intensi fermenti e di grandi mutamenti, che interessarono la valenza stessa della politica, la fiducia nelle istituzioni, le funzioni della rappresentanza, i limiti del potere.
La caduta del Muro di Berlino, nel 1989, simboleggiò la modifica degli equilibri dell’Europa e del mondo, chiudendo il lungo dopoguerra e aprendo la porta alla società globale.
Cossiga colse con acuta sensibilità che caduta del Muro e fine della potenza sovietica avrebbero avuto conseguenze anche sulla vita politica del nostro Paese, mettendo in discussione non solo i vecchi equilibri ma anche le rendite di posizione di chi supponeva di riceverne vantaggio in quanto estraneo all’ideologia sconfitta.
La fine dell’equilibrio di Yalta, a giudizio del Presidente, non poteva non riflettersi sul sistema politico italiano.
Secondo la testimonianza di uno dei suoi più stretti collaboratori – Ludovico Ortona – Cossiga non gradiva il ruolo di Presidente notaio ma, ancor meno, aspirava a quello di Presidente “imperatore”.
Si riassume in questo la ricerca e la evoluzione dei rilievi che, dapprima in modo assolutamente misurato e, via via, in modo più vivace, rivolse sulla questione che animava anche il dibattito tra le forze politiche: quella di una stagione di riforme istituzionali.
Il Presidente partiva dalla considerazione che nuocesse al Paese una visione che giudicasse le istituzioni esistenti fragili perché in attesa di riforma, richiamando al rispetto di una indeclinabile finalità: “Le riforme istituzionali – disse nel tradizionale messaggio di fine anno nel 1987 – devono condurre all’obiettivo essenziale di promuovere la crescita della democrazia”.
Un obiettivo che faceva tutt’uno con la “nuova ed esaltante primavera della Repubblica”, da lui auspicata, con quelle parole, in occasione del discorso di insediamento quale Capo dello Stato.
Resta come atto impegnativo il suo messaggio alle Camere sulle riforme costituzionali, che reca la data del 26 giugno 1991.
Ne inviò altri otto, se contiamo il saluto al Parlamento all’atto delle sue dimissioni, annunciate il 25 aprile 1992, per ovviare a quello che, giornalisticamente, venne definito “l’ingorgo istituzionale” per la contestualità dell’insediamento delle Camere dopo le elezioni, della formazione del nuovo governo e, appunto, della vicina elezione del suo successore.
Uno strumento, quello del messaggio ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, utilizzato in precedenza una volta dal Presidente Segni nel 1963 e una dal Presidente Leone nel 1975.
Le proposte che il Presidente Cossiga formulò sono un capitolo del lungo percorso di transizione che la nostra Repubblica ha compiuto tra rallentamenti e accelerazioni. Cossiga suggerì, prima delle trasformazioni che hanno riguardato la stessa identità dei partiti storici, una stagione costituente, con ampie riforme della seconda parte della Carta, riaffermando il vincolo morale e civile tra gli italiani e i principi della Costituzione.
Il Presidente Cossiga esercitò le prerogative costituzionali con le qualità che derivavano dalla sua lunga esperienza, e anche con la puntualità di uno studioso del diritto.
Ribadì, con lettera al Presidente del Consiglio incaricato Andreotti, i poteri che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato nella nomina dei ministri e descrisse il vaglio presidenziale come non comprimibile.
Diverse leggi furono rinviate dal Presidente Cossiga e le motivazioni addotte nei relativi messaggi di rinvio alle Camere hanno riguardato diversi profili, suscitando anche vivaci dibattiti tra gli studiosi.
Inaugurò la prassi dei rinvii di leggi di conversione di decreti, trovandosi a operare, del resto, in un contesto in cui, prima della nota sentenza della Consulta contro la prassi di reiterare i decreti legge, la decretazione d’urgenza aveva assunto caratteri abnormi, tali da stravolgere i rapporti tra Governo e Parlamento.
Agli storici del diritto e ai costituzionalisti ha offerto molti spunti e molti materiali per gli studi e per fornire alla vita delle istituzioni quel supporto di teoria e di cultura che è necessario per la sua qualità.
La sua testimonianza civile e politica ha contribuito al patrimonio democratico degli italiani.
Nel discorso di insediamento aveva assunto la gente comune come punto di riferimento per saldare – come disse – passato e futuro, auspicando una nuova solidarietà “per valori non solo personali ma soprattutto comunitari”.
Per avere speranza civile – disse – “c’è bisogno di una giustizia sociale che non sia calata dall’alto ma condivisa e prodotta dai cittadini”. Aggiungendo che “lo sviluppo non si traduce in speranza civile se non si unisce alla capacità di risolvere i due grandi problemi della nostra vita nazionale: la disoccupazione e l’arretratezza delle aree meridionali “.
Parole lungimiranti di un italiano che ha servito il Paese con tutta la forza di cui è stato capace e del quale oggi, a dieci anni dalla scomparsa, onoriamo la memoria.