Buio in sala. La vecchia espressione, preludio di emozione sul grande schermo, adesso ha un sapore amaro. I cinema di una volta non ci sono più, le monosale appartengono al ricordo di spettatori con i capelli bianchi. Ultimo e terribile banco di prova, l’anno pandemico: per la prima volta sono state chiuse simultaneamente tutte le sale cinematografiche italiane, e meno della metà sono finalmente riuscite a riaprire. Un film celebra quegli immaginifici templi del cinema: lunedì 27 luglio, alle ore 21.15 a La Maddalena (Fortezza I Colmi) “L’ultimo pizzaiolo” di Sergio Naitza inaugura l’edizione 2020 del Festival “La Valigia dell’Attore”, manifestazione diretta da Giovanna Gravina Volonté e Fabio Canu, in programma fino al primo agosto. Scritto e diretto da Sergio Naitza, prodotto da Karel (col contributo di Fondazione di Sardegna, la collaborazione della Società Umanitaria-Cineteca Sarda e Arionline, il sostegno di Fondazione Sardegna Film Commission), “L’ultimo pizzaiolo” racconta un pezzo di memoria collettiva attraverso le sale cinematografiche della Sardegna chiuse, abbandonate e decadenti: per immortalare questi luoghi prima che vengano definitivamente cancellati dal profilo urbano di città e paesi. Nessuna elegia del cinema, però: “L’ultimo pizzaiolo” vuole solo difendere una memoria pubblica e privata che appartiene a tutti, restituire il racconto di un “come eravamo” piuttosto recente, che si riverbera nella storia sociale, economica e culturale, e che merita di non essere coperto dall’oblio. Anche dopo il fatidico cartello “Fine” o “The end”.
La proiezione al Festival “La valigia dell’attore” sarà introdotta dal regista, Sergio Naitza, con uno dei protagonisti del film, Pino Boi, l’ultimo storico distributore di pellicole e cagliaritano verace. Il padre era proiezionista e rumorista già ai tempi del muto nel cinema Olympia del capoluogo sardo, e Pino Boi, oltre a seguire le orme paterne poi abbandonate, è stato fattorino, magazziniere, distributore: una vita in mezzo alla pellicola. Ne “L’ultimo pizzaiolo” alla sua voce si intrecciano quelle di altri anziani proiezionisti: tre “pizzaioli”, appunto, ultimi sacerdoti di rito laico, un mestiere soppresso dalla tecnologia. C’è Mario Piras, storico operatore del cinema Olympia di Cagliari, entrato in cabina da ragazzino nel 1948; c’è Luciano Cancedda, che ha lavorato nel cinema dal 1957 per diventare poi proiezionista del cinema Moderno di Monserrato, fino alla chiusura della sala; e c’è Dante Cadoni, che ha iniziato nel 1966 a 15 anni al cinema Garibaldi di Villacidro per aiutare il padre, e ha poi portato avanti l’attività familiare. Ognuno di loro porta una parola, un pensiero, un ricordo, una riflessione su un’era che si è chiusa. I luoghi sono i silenziosi coprotagonisti del documentario: per loro parlano le immagini, captate dalla sensibilità fotografica di Luca Melis, strutture fatiscenti dietro a una serranda arrugginita abbassata, che nasconde un ventre ormai svuotato, spesso senza più poltrone né schermo. “L’ultimo pizzaiolo” è un viaggio evocativo attraverso tante sale cinematografiche della Sardegna, ormai dismesse: le sale Due Palme e Alfieri di Cagliari, Ariston e Quattro Colonne di Sassari, Olimpia di Iglesias, Moderno di Sant’Anna Arresi, Verdi di Domusnovas, Nuovocine e Garibaldi di Villacidro, Pusceddu di Guspini, Tre Campane di Lunamatrona, Costantino di Macomer, Iris di Assemini, Vittoria di Uta, Astor di Villasor, Italia di Dorgali, Splendor di Arzachena, Astra di Olbia, Smeraldo di Jerzu. «L’idea del film – racconta il regista Sergio Naitza – è di immergere ancora una volta lo spettatore in quel bozzolo buio, con lentezza ieratica, insistente e latente, lasciando che un dettaglio o un totale, un movimento laterale o un leggero dolly, faccia riemergere quell’atmosfera che puzzava di fumo e variegata umanità dimenticata». Le immagini dei cinema della Sardegna “disabitati” scorrono nel documentario montato da Davide Melis come squarci di natura morta, reperti di archeologia industriale, lacerti di un luogo sconsacrato che sembra remoto ma in realtà è recente.
«Ogni città ha la sua via Gluck– spiega ancora il regista, Sergio Naitza – dove c’era il verde, e laddove la sala cinematografica era un luogo di divertimento, cultura, condivisione, speranza, adesso c’è una città, ovvero l’ingordigia immobiliare che ha cambiato la destinazione d’uso e soppresso una memoria collettiva. Una rapida morte, dagli anni Ottanta, ha cancellato repentinamente luoghi simbolo di ogni centro abitato, grande e piccolo, frantumando un tessuto sociale che si era formato nel corso del tempo. Sono arrivati i multiplex, ora è diverso il modo di andare al cinema. Ma cosa resta oggi dei tanti cinema Paradiso? In Sardegna molto poco. Cagliari, per esempio, non ha più nessuna delle storiche sale. Ariston, Fiamma, Nuovo Odeon, Quattro Fontane, Nuovocine, Capitol, Corallo, Due Palme, Adriano sono stati spazzati via, nessuna sala cittadina si è salvata. Così Nuoro, Olbia, Quartu, Iglesias, Lanusei. Solo Sassari, in controtendenza, ha conservato il Moderno nel cuore della città, trasformandolo in un multiplex. Resiste qualche cinema storico a Carbonia, Oristano, Alghero. E accanto alla parabola dei cinema scomparsi, c’è quella dei vecchi proiezionisti, dei gestori, delle cassiere: dentro le sale sarde ci sono storie che non sono mai state raccontate, specchio di un’Isola che cambiava perché il cinema era connesso con la realtà sociale».
Anche la musica entra in dicotomia con l’impianto visivo: non un commento struggente o mieloso, per evitare l’effetto nostalgia, ma la disarmonia delle elaborazioni elettroniche composte da Arnaldo Pontis. Rimandi di sonorità industriali intrecciate con vibrati in loop, qualche lamento di chitarra elettrica di Matteo Casula e note al piano dissonanti o irregolari per conferire una frattura, un distacco emotivo dalle immagini. «Solo sui titoli di coda – sottolinea Naitza – cambia il tono sonoro con una canzone del 1939, “Signora Illusione“, intrisa di malinconia e dolcezza, in struggente sintonia con le immagini delle sale chiuse che rimandano appunto alla magia e all’illusione del cinema dei vecchi tempi. L’interprete è la grande cantante sarda, diva dei palcoscenici lirici e teatrali europei della prima metà del secolo scorso, Lia Origoni, oggi centenaria, alla quale va il nostro ringraziamento per averci concesso l’uso del brano».
Note di regia, di Sergio Naitza
Quando è nato il progetto “L’ultimo pizzaiolo” – ovvero la ricerca delle ultime sale cinematografiche della Sardegna ormai chiuse, abbandonate e fatiscenti, e la raccolta delle testimonianze degli anziani proiezionisti della pellicola – non c’era dietro il sentimento della nostalgia, il rimpianto dei vecchi gloriosi anni d’oro del cinema. C’era invece il desiderio di capire come era mutato il panorama urbanistico delle città e dei paesi sardi senza più sale, quale valore sociale e culturale rappresentava l’andare al cinema, che fine aveva fatto quella piccola imprenditoria familiare che, di padre in figlio, tramandava il mestiere dell’esercente e del proiezionista: tutti elementi di un mondo repentinamente sostituito – la data del declino è l’inizio degli anni Ottanta – dall’avvento della tecnologia e del digitale. E della multisala. E prima ancora delle videocassette, oggi dello streaming.
Un viaggio dunque sulle tracce di una memoria storica collettiva che si sta cancellando, perché la sala cinematografica che era un luogo simbolo di ogni città e paese dell’Isola, punto di riferimento toponomastico (chi non diceva, per esempio: “Vediamoci davanti al cinema Ariston” anche solo per darsi un appuntamento) oggi non esiste più: è stata demolita dall’ingordigia del mattone e trasformata in altro, un edificio, un garage, una banca, un supermarket, macerie, niente. E con i cinema sono sparite anche le insegne, che facevano parte della segnaletica urbana, luminosi punti cardinali per il passante nonché esche fosforescenti che titillavano il desiderio. Quelle rimaste si contano sulle dita di una mano: ossidate, sbilenche o sbiadite come certe scritte del ventennio nero; avevano nomi esotici, regali, altisonanti: Olympia, Capitol, Astoria, Splendor, Impero, Garibaldi, Corallo, Smeraldo, Due Palme, Astoria, Vittoria, Astra, Astor, Iris, Eden, appunto come una promessa di due ore in paradiso in cambio di un paio di monetine. Così siamo andati alla ricerca di quelle saracinesche arrugginite e abbassate da anni per scoprire se dentro c’era ancora un cinema o qualcosa che gli assomigliasse: con l’intenzione quindi di documentare, di filmare, prima dell’arrivo di una ruspa, quel che restava dei templi dei sogni della Sardegna. Anche perché le fonti iconografiche (fotografie o disegni) esistenti sono rarissime, nessuno allora pensava di scattare qualche immagine-ricordo di una sala, né all’esterno, tantomeno all’interno.
La sensazione più frequente e sorprendente – una volta superata la serranda chiusa o il portone sprangato – è stata quella di sperimentare l’effetto macchina del tempo: molte sale erano rimaste intatte dal giorno di chiusura – venti, trent’anni prima – cristallizzate nella data dell’ultimo spettacolo con i gloriosi manifesti dell’epoca ancora in vista, le pesanti tende gonfie di polvere, l’imponente schermo raggrinzito, ingiallito, le poltroncine in legno ammantate di ragnatele, quelle imbottite ferite da tagli come cicatrici opera di spettatori vandali, la pellicola che pendeva languida dal proiettore, le bobine conservate in un cantuccio. Altre sale invece mostravano i segni della decadenza e dell’incuria, sventrate e svuotate di arredi, con schermo incartapecorito o a brandelli, talune prive di poltroncine, sbullonate e accatastate le une sulle altre, in una surreale opera d’arte contemporanea. Altre ancora col soffitto pendente o crollato, i pannelli fonoassorbenti delle pareti accartocciati, i segni evidenti dappertutto del regno incontrastato dei piccioni. L’impressione di un vuoto, di abbandono distratto e stanco, di vischiosa solitudine: scoprire la caverna dei desideri trasformata in un androne deserto, lugubre come la stiva di una nave in disarmo, le poltrone col sedile ribaltabile, ritte sull’attenti come lapidi allo spettatore ignoto. Tutte le sale però avevano il luogo più segreto, sconosciuto e proibito allo spettatore – ovvero la cabina di proiezione – ancora efficiente, dove le mastodontiche macchine in ferro, simili a pachidermi ingessati in una stanza troppo piccola, con i marchi argentati in bella vista (Pion, Victoria, Prevost, Cinemeccanica), aspettavano solo che venisse caricata la bobina di pellicola per ripartire. Il luogo intimo dove si generava la magia della proiezione si presentava come un reperto storico, pronto per essere filmato in un crudele contrappasso.
A riempire di ricordi e aneddoti quegli angusti spazi, sono stati i “proprietari”, gli anziani proiezionisti, titolari di un mestiere che è stato mandato in pensione dalla tecnologia e cancellato dalla giurisprudenza contrattuale (non esiste più la figura del proiezionista, ora si chiama impiegato di secondo livello): ne abbiamo rintracciato tanti e poi ne abbiamo selezionato tre (uno della città, Mario Piras; uno dell’hinterland, Luciano Cancedda; e uno dei paesi, Dante Cadoni), riuniti in una cabina di proiezione per raccontarsi e raccontarci segreti e curiosità del loro lavoro. Memorie in fotocopia da Nuovo Cinema Paradiso, riemerse con la passione che mai ha conosciuto noia o rifiuto. I proiezionisti sono stati i silenziosi non protagonisti eppure pedine fondamentali della macchina-cinema, ultimo anello di una filiera che aveva necessità del loro sapere, industriale e artigianale insieme, per regalare quotidianamente, feste comprese, un sogno a buon mercato. Lavoratori infaticabili consapevoli che il minimo inciampo tecnico procurava nel pubblico un brusco risveglio condito da improperi e fischi. Ecco, nelle loro parole riemergono malinconia e rimpianto, ma senza un languoroso piagnisteo, solo l’accettazione dei tempi che cambiano e nulla può conservarsi come una volta. A far da collante fra le immagini e i ricordi c’è Pino Boi, colui che è stato l’ultimo gestore del deposito di pellicole della Sardegna, un tempo carico di bobine di celluloide o più comunemente “pizze”, da distribuire in ogni paese e oggi invece solo centro raccolta di manifesti di film o snodo per qualche valigetta di DCP. Così “l’ultimo pizzaiolo” – che dà anche ironicamente il titolo al documentario – è diventato il testimone privilegiato, con le sue memorie, di un passaggio storico epocale.
Le immagini dei cinema della Sardegna “disabitati” che scorrono nel documentario – captate dalla sensibilità fotografica di Luca Melis e montate con affinità elettiva da Davide Melis – sono come squarci di natura morta, reperti di archeologia industriale; è come aprire la porta di una cantina trascurata e trovarci l’inutilità delle cose vecchie, lacerti di un luogo sconsacrato che sembra remoto ma in realtà è recente. L’idea era di far precipitare lo spettatore di nuovo in quel bozzolo buio con lentezza ieratica, insistente e latente, lasciando che un dettaglio o un totale, un movimento laterale o un leggero dolly, facessero riemergere quell’atmosfera che puzzava di fumo e variegata umanità dimenticata (oggi nelle sale regna l’olezzo di pop corn). Anche la musica doveva entrare in dicotomia con l’impianto visivo: non un commento struggente o mieloso, proprio per evitare l’effetto nostalgia, bensì il contrario, cercare una disarmonia che le elaborazioni elettroniche di Arnaldo Pontis hanno reso calzante. Rimandi di sonorità industriali intrecciate con vibrati in loop, qualche lamento di chitarra elettrica di Matteo Casula e note al piano dissonanti o irregolari per conferire una frattura, un distacco emotivo dalle immagini. Solo sui titoli di coda cambia il tono sonoro con una canzone del 1939, “Signora Illusione”, intrisa di malinconia e dolcezza, in struggente sintonia con le immagini delle sale chiuse che rimandano appunto alla magia e all’illusione del cinema dei vecchi tempi. L’interprete è la grande cantante sarda, diva dei palcoscenici lirici e teatrali europei della prima metà del secolo scorso, Lia Origoni, oggi centenaria, alla quale va il nostro ringraziamento per averci concesso l’uso del brano. Lungi dall’essere elegia del cinema dei fulgidi anni, “L’ultimo pizzaiolo”, in fondo, vuole essere la difesa di una memoria pubblica e privata che appartiene a tutti, il racconto di un recente “come eravamo” di un piccolo pezzo di storia sociale, economica e culturale della Sardegna che merita di non venire coperto dall’oblio. Anche dopo il fatidico cartello “Fine” o “The end”.