
Si è celebrato ieri, il terzo anniversario della scomparsa di Manlio Brigaglia, storico, scrittore, giornalista, docente universitario.
Figura insostituibile nel panorama culturale della Sardegna, Brigaglia ha lasciato un’ amplissima produzione letteraria di scritti e memorie incentrate sulla Sardegna e la sua storia, fatta di luoghi, personaggi, aneddotti, fatti, ricordi.
Laureato in Lettere Classiche a Cagliari, piace rendergli omaggio, riproponendo un suo scritto, un piacevole ‘quadretto’, ove rievoca un viaggio avventuroso fatto negli anni della guerra: Manlio Brigaglia, a quel tempo studente universitario, giunto dopo un faticoso viaggio in treno, in una Cagliari diroccata e martoriata dai bombardamenti, descrive con occhi e penna da giornalista attento, divertenti fatti di costume che narrano una Cagliari ormai andata e dai costumi che paiono lontanissimi ai giorni nostri.
(Di Manlio Brigaglia) – Nell’autunno del 1944, l’Università di Cagliari aveva riniziato a funzionare a pieno ritmo; c’era ancora qualche problema per i professori, una parte di loro era rimasta a nord di Firenze nell’Italia occupata dai tedeschi; una parte stava invece nell’Italia a sud di Firenze ormai liberata, ma raggiungere la Sardegna era una impresa che riusciva a pochi.
Viaggiava qualche aereo militare su cui venivano fatti salire piccoli gruppi di borghesi fortemente raccomandati (o che avevano precise incombenze civili o politiche). Il Tirreno si attraversava ancora su un periglioso ‘Montecuccoli’, nave da guerra che affrontava impavida le onde (ma più impavido era chi ci doveva viaggiare).
Chi stava a Sassari come me, arrivava a Cagliari con un viaggio che durava quasi un giorno: si partiva all’alba, dopo aver conquistato con i denti un posto a sedere in certe sciagurate ‘Littorine’ che davano sempre l’impressione di essere pronte ad esalare l’ultimo respiro .
Si arrivava a Cagliari che già scendevano da Castello le prime ombre; o così almeno ci sembrava. Cagliari era un cumulo di macerie: si camminava in stretti sentieri ricavati ammucchiando ai bordi delle strade, mattoni, pietre, calcinacci, pezzi di finestre e di ringhiere; ai lati rimanevano interni di case con i pavimenti ripiegati in giù, come fogli di carta, quadri ancora appesi, resti di mobili su su, fino al quarto, quinto piano.
Dormire. La mia prima ‘pensione’ cagliaritana fu alla Casa delle Missioni, anch’essa semidistrutta tra le macerie di San Domenico e gli squarci delle Elementari di Piazza Gariobaldi. Per un anno dormimmo in tre in una stanza senza vetri. Miei compagni di fatica (perchè bisognava pensare a tutte le pulizie) erano altri due sassaresi: Nino Brianda che sarebbe poi stato anche sindaco della città e Paolo Dettori che sarebbe poi diventato presidente della Regione.
Fu anzi Dettori che ci fece sfrattare dai buoni padri vincenziani: cattolico di sinistra, ebbe una polemica con un qualche ‘superiore’ in tema (non vorrei sbagliare) di dottrina sociale della Chiesa; insomma, lo presero per comunista ed il risultato fu che ci cacciarono tutti.
Vestirsi. Nessuno può ricordare senza ridere come siamo andati vestiti per anni, in quegli anni. Fu la saga dell’orbace, quella rozza lana che, tinta di nero, e diventato il tessuto nazionale delle divise dei gerarchi, continuava a fare il suo povero servizio in giacche, cappotti, calzoni. Per tutti c’era il problema del colletto che andava ricavato da qualche pezzo di velluto, perchè l’orbace tagliava come una ghigliottina.
Per i maschi c’era il problema dei pantaloni fortemente abrasivi all’altezza dei polpacci; avevano camicie ricavate da pezzi di paracadute (una seta avorio brillante, di grande raffinatezza), pullover ricavati dalle panciere uscite dai magazzini militari nella grande confusione dell’8 settembre: per tingerli si usava ‘l’Atebrin’ una micidiale pastiglia contro la malaria. Chi la prendeva si salvava dalla malaria (quando gli andava bene) ma diventava giallo come un limone.
Mangiare. Salvo voler correre la perigliosa sfida delle mense universitarie, si poteva fare affidamento sul buon cuore degli istituti religiosi. Quel primo anno, le suore d’un istituto femminile, ci riempivano di qualcosa che doveva essere un minestrone (ma erano ‘pappette’ americane rovesciate dall’Onarmo, la più terribile invenzione bellica degli States a parte l’atomica): bisognava andare a prenderlo in un recipiente che era un vecchio bidone di conserva di pomodoro, lo stesso che da noi in Gallura, si usava per dare da mangiare ai maiali.
Ai primi caldi di marzo, andammo al Poetto a fare il bagno. C’era già il tranvetto che ci arrivava, carico di poca gente. A noi, che pure avevamo negli occhi il lido di Alghero ed il mare fino a Capo Caccia, il biancore di tutta quella sabbia si abbacinava. Raramente mi è capitato di sentire la superiorità storica di Cagliari su tutto il resto dell’isola, come in quella interminabile spianata tutta di rena impalpabile e di mare trasparente e quasi immobile.
La spiaggia era deserta. Quando facemmo il primo bagno, io e Dettori, in tutta la distesa c’era soltanto un gruppo di tre o quattro ragazze dai capelli scuri ed altrettanti giovinotti biondi, cento metri più in là.
Le ragazze non avevano il costume da bagno, ma solo qualche pezzo di biancheria intima, i giovinotti erano quasi più vestiti di loro. Una specie di ‘dejeuner sur l’erbe’ sotto la Sella del Diavolo. Fecero il bagno sguazzando e gridando. Quando si rivestirono le ‘segnorine’ ripresero le loro borsette e le scarpe in sughero, i ragazzotti rimisero le loro divise da aviatori americani.
Alberto Porcu Zanda
