Fino alla scorsa settimana l’ipotesi di un riconoscimento russo delle Repubbliche separatiste del Donbass sembrava molto lontana dalla realtà. Tutto però è cambiato nel giro di otto giorni. Il 14 febbraio per la prima volta alla Duma, la Camera Bassa del parlamento russo, si è iniziato a parlare di questa eventualità grazie a due specifiche mozioni. Una è stata presentata dai deputati del Partito Comunista, all’opposizione rispetto a Putin, l’altra invece dal partito del presidente, Russia Unita. In entrambe è stato chiesto al governo di valutare il riconoscimento di Donetsk e Lugansk. Il giorno dopo la mozione del Partito Comunista a sorpresa passata a larga maggioranza. Da allora la situazione è diametralmente cambiata.
Lo status delle regioni separatiste prima dell’escalation di febbraio
La crisi nel Donbass, com’è noto, non è iniziata nelle ultime settimane. Ha origine nel colpo di stato del 2014 Il 21 febbraio di quell’anno, esattamente otto anni fa dunque, il parlamento di Kiev in mano alle frange naziste ha estromesso dalla presidenza Viktor Yanukovich ponendo fine al governo del Partito delle Regioni. Una formazione quest’ultima ben radicata nell’est del Paese, a maggioranza russofona. Si è arrivati cioè al culmine della rivolta dell’Euromaidan, un sanguinario colpo di stato, voluto e finanziato dall’occidente. Fino a quel momento il Donbass, la regione cioè più a est del Paese, era rimasto quasi del tutto estraneo dalle tensioni che invece hanno attraversato Kiev. Il problema però è iniziato a sorgere quando alla questione sul nuovo orientamento geopolitico dell’Ucraina si è sovrapposta la questione delle politiche interne attuate dalla nuova dirigenza filo occidentale al potere. In particolare, l’eliminazione del russo quale lingua ufficiale e la promozione dell’uso esclusivo dell’ucraino hanno creato non poche apprensioni tra la popolazione russofona dell’est. Sono sorte quindi a Donetsk, così come a Lugansk e in altre città del Donbass manifestazioni in grado di mettere in discussione la presenza delle autorità di Kiev. Nel mese di aprile di fatto era già guerra. I comitati popolari nati in quelle settimane hanno proclamato l’indipendenza dei territori attorno Donetsk e Lugansk dove l’esercito ucraino non è riuscito a riprendere il controllo. Si è creata quindi una situazione molto complessa: nell’est dell’Ucraina si sono formate due Repubbliche soltanto de jure organiche al Paese ma de facto controllate da autorità autonome e legate, culturalmente e politicamente, alla Russia. Nel settembre 2014 a Minsk è stato negoziato un cessate il fuoco tra le parti. Nel documento è stata prevista una “linea di contatto” in cui fissare i confini tra governativi e separatisti. Contestualmente, è stato previsto un processo di pace volto a garantire l’integrità territoriale ucraina e dunque il rientro delle due Repubbliche sotto la sovranità di Kiev, in cambio però della concessione di un’ampia autonomia al Donbass. Il processo di pace non è andato avanti e si è arrivati alla vigilia dell’attuale escalation con una situazione pressoché cristallizzata
La posizione della Russia fino ai giorni scorsi
Mosca non aveva mai preso in considerazione l’idea di riconoscere ufficialmente le due Repubbliche separatiste. Una posizione differente rispetto a quanto visto nel 2008 in Georgia, quando il Cremlino ha invece riconosciuto l’Ossezia del Sud e l’Abcasia, le due entità indipendenti de facto ma parti integranti del territorio georgiano per il resto della comunità internazionale. La differenza delle posizioni è spiegata dal fatto che la Russia ha sempre fatto riferimento, come base per dirimere le controversie, agli accordi di Minsk. E dunque alla possibilità che, in caso di positiva risoluzione del processo di pace previsto nel 2014, Donetsk e Lugansk potessero ritornare sotto la sovranità ucraina.
Gli otto giorni che hanno rovesciato la situazione
Sulla scia dell’escalation politica e militare iniziata a gennaio, in cui per via della volontà di Kiev di aderire alla Nato si è iniziata a paventare l’invasione russa dell’Ucraina, la Duma ha preso in esame il 15 febbraio le due mozioni parlamentari volte a chiedere al Cremlino il riconoscimento ufficiale delle due Repubbliche stanziate nel Donbass. L’approvazione a larga maggioranza delle mozioni in un primo momento non ha scalfito la posizione di Putin . Il presidente russo ha continuato a caldeggiare una risoluzione del conflitto tramite gli accordi di Minsk. Pochi giorni dopo il voto della Duma però, lungo la linea di contatto si è tornati pesantemente a sparare. Il 17 febbraio a Donetsk e Lugansk è stato dichiarato lo stato di emergenza. Il 18 febbraio è stato impartito l’ordine di evacuazione dei civili. In pochi giorni più di 60mila persone hanno fatto le valigie e si sono dirette verso la regione russa di Rostov. Nel frattempo a Lugansk quasi un milione di residenti hanno chiesto la cittadinanza russa e la domanda è stata accolta in oltre l’80% dei casi.
La svolta è arrivata il 21 febbraio. Anche la Camera Alta ha chiesto a larga maggioranza il riconoscimento delle due Repubbliche separatiste. Putin, dopo una riunione di emergenza del consiglio di sicurezza, ha dichiarato “senza prospettive” il processo di pace retto dagli accordi di Minsk. É stato questo il preludio al rovesciamento definitivo della posizione russa. In serata il disco verde ufficiale: per il Cremlino, Donetsk e Lugansk sono due Repubbliche sovrane e indipendenti, non più rientranti quindi nei confini ucraini.