
Il viaggio-itinerario nella Cagliari storica, si chiude con la scoperta di Stampace e delle donne borghesi che ne caratterizzavano il tessuto sociale.
Edificato nel XIII secolo, Stampace fin dalla sua origine era un quartiere fortificato con una cinta muraria, torri difensive ed un sistema costruttivo di semplici abitazioni basse ed affiancate, con orti sul retro. Il quartiere, già dal ‘300 era abitato in prevalenza dalla c.d. borghesia del commercio, ossia artigiani, mercanti e piccoli commercianti ai quali poi nel ‘400 si aggiunsero notai ed avvocati e in seguito argentieri ed artisti.
Il ceto borghese, oggi come allora era ampio, variegato e non univoco: in sostanza, una cosa era l’alta borghesia, un’altra la borghesia medio-bassa.
“Le donne alto borghesi – quanto a lussi, svaghi ed agiatezza – vivevano con uno stile di vita pari a quello delle donne nobili; in epoca spagnola – puntualizza la nostra guida Claudia Farigu – spesso accadeva che famiglie borghesi con buona disponibilità finanziaria finissero per acquisire un titolo nobiliare, sia attraverso il sistema delle unioni matrimoniali, principale strumento di ascesa sociale, ma anche grazie ai prestiti fatti alla Corona da parte di ricchi mercanti. L’aristocrazia feudale non sempre navigava nell’oro, anzi la titolarità di un solo feudo di limitate dimensioni e rendite, spesso non bastava per assicurare il tenore di vita che la famiglia doveva ostentare, senza contare che chi aveva sangue nobile difficilmente si sporcava le mani col lavoro. Concedere la mano della propria figlia ad un uomo d’affari, che potesse garantire liquidità finanziaria con la propria attività, poteva essere una soluzione appetibile; pazienza se l’estrazione sociale era non proprio altolocata”.
Esempi di famiglie nobili di origine borghese, entrambe di origine ligure erano gli Asquer (in origine Ascheri) e la famiglia Borro. Nel periodo piemontese, sarà poi abitudine concedere il titolo nobiliare per meriti ‘imprenditoriali’ a chi organizzava le tonnare, la pesca del corallo, la produzione del gelso e gli insediamenti agricoli nuovi, in particolare frutteti e oliveti.
“Le donne piccolo borghesi del ceto medio-basso – prosegue la guida – avevano invece una vita e delle prospettive decisamente più limitate: nascevano in una famiglia dove il padre era un artigiano, titolare della bottega-laboratorio, un commerciante al dettaglio, un farmacista; oppure un medico, un insegnante, uno scrivano, o comunque un impiego pubblico che assicurava un modesto guadagno. Le donne di questo censo venivano educate per il matrimonio; anche in questo caso, la dote giocava un ruolo fondamentale e dalla sua consistenza dipendevano le sue prospettive sociali. Chiaramente, nelle trattative matrimoniali, per realizzare una buona unione ciò che giocava un ruolo determinante era poi la professione che il padre o i fratelli esercitavano; più era elevata – per importanza sociale ed economica – meglio era, dato che a quei tempi esisteva la possibilità, sia per i mestieri artigianali che per gli impieghi pubblici, di ereditare la posizione ricoperta da un altro familiare”.
Gli artigiani, per poter lavorare dovevano necessariamente essere iscritti al gremio, pena l’accusa di esercizio abusivo: far parte di una corporazione artigianale era quindi un bene talmente importante, che si faceva di tutto perchè non andasse disperso.
Negli uffici pubblici, accadeva ugualmente che molti incarichi passassero da una generazione all’altra, anche ai più alti livelli. Un caso eclatante fu quello di Don Nofre, il quale riuscì a far sì che la sua carica di Procuratore Reale passasse al genero Don Paolo de Castelvì: insomma, dote a parte, la professione od il mestiere era una merce di scambio vendibile per congegnare un buon matrimonio.
Racconta ancora Claudia Farigu: “ Le fanciulle borghesi, educate per essere le future padrone di casa, ricevevano una modesta istruzione e sapevano a malapena far di conto: a differenza delle donne d’alto rango, il marito di solito non aveva motivo per stare lontano da casa per lunghi periodi, non avendo un vasto patrimonio da amministrare, quindi non era necessario che la donna gestisse o fosse in grado di curare gli affari di famiglia in sua assenza. Le rare occasioni in cui si presentava davanti al notaio erano quando doveva firmare il contratto per la dote della figlia o di apprendistato per il figlio. Una volta sposate, divenivano meri de dommu, dedicandosi in prima persona ai lavori in casa. Potevano permettersi qualche aiuto, avere a disposizione una o più serve; se il bilancio familiare lo permetteva anche la balia, più raramente degli schiavi. Le donne borghesi non soffrivano la fame, anche se le condizioni di vita non sempre erano agiate; si pensi che le case a Stampace erano solitamente scomode, modeste e prive d’acqua che andava presa alle fontane. I beni personali erano pochi, i gioielli rari, i vestiti erano usati per anni”.
Insomma, la donna di questo censo non era ricca né potente, ma godeva anche lei di stima e buona considerazione sociale. Impersonificava l’ideale della donna devota, che si dedicava alla gestione della casa e all’educazione dei figli. I pochi svaghi permessi, consistevano nelle visite alle vicine di casa e le cerimonie religiose. Le norme morali erano rigidissime, i matrimoni dovevano avere il placet familiare e l’adulterio era punito oltre che moralmente, anche sotto il profilo penale.
Giusto la vedovanza poteva rendere la donna borghese, indipendente: tuttavia in poche si risposavano; grazie alla autosufficenza economica, non avendo un patrimonio familiare da consolidare come le donne nobili o dell’alta borghesia, si godevano una esistenza solitaria ma senza vincoli: ne è un esempio Eleonora, la sorella del pittore Michele Cavaro della Scuola di Stampace, la quale rimasta vedova decise di occuparsi da sola della nipote, figlia del fratello appunto, quando questo si trasferì a Bosa.
Certo, a volte accadeva che il marito vincolasse il lascito dei suoi beni alla moglie, alla condizione che questa non si rimaritasse; in queste ipotesi, l’alternativa di risposarsi senza più beni veniva scartata non per scelta quanto per necessità.
Altra curiosità che la guida Claudia Farigu svela, è che la donna della media-bassa borghesia poteva essere imprenditrice; bastavano discrete capacità professionali oltre che risorse minime necessarie e poteva permettersi di lavorare in proprio. Esclusa dalle cariche pubbliche e da tutti i mestieri artigiani che erano di pertinenza esclusiva degli uomini, poteva per esempio aspirare a diventare maestra di scuola.
“A Stampace – spiega la nostra guida – una tipica attività svolta dalla donna della piccola borghesia, era quella di sarta, sa maista de tallu: il compito era quello di vestire le donne e i bambini. Su maistu de pannu, era invece il sarto che si occupava di confezionare abiti per gli uomini. La rigida divisione di compiti tra sarto che si occupava di vestire gli uomini e sarta che vestiva le donne, era dovuto al fatto che il mestiere comportava – per il taglio e la fattura dei vestiti – misurazioni sul corpo e per le leggi morali del tempo, non sarebbe stato accettabile che un sarto avesse un contatto fisico con una cliente o viceversa”.
Le giovani ragazze interessate al mestiere di taglio e cucito, spesso andavano a bottega da un sarto per apprendere il mestiere: i sarti avevano in genere una professionalità più riconosciuta rispetto alle colleghe donne perché a volte avevano frequentato la scuola di taglio in Continente e si erano diplomati.
Le sarte a loro volta avevano di solito delle apprendiste sa scienti, naturalmente solo ragazze. Alcune maistas de tallu, particolarmente brave nel confezionare abiti da sposa e da cerimonia, si facevano pagare per assumere un’apprendista, considerando la perdita di tempo per insegnarle le tecniche. Altre più modeste, le assumevano gratis. Se l’abito commissionato non era importante, ossia da festa, l’incarico poteva essere assegnato all’apprendista più brava, altrimenti se ne occupava direttamente sa maista.
Anche se delle donne e dei loro mestieri, tanto ancora ci sarebbe da sapere, questo tour ‘in rosa’, tre ore e mezza di passeggiata per i quartieri storici, è volato via e si conclude qui. Un sentito grazie alla guida Claudia Farigu, per il pregevole taglio di conoscenze e notizie che ha saputo proporre.
Alberto Porcu Zanda
(foto di copertina – fonte web)
