Si ammalano molto di meno. Ma quando devono fare i conti con il tumore al seno, hanno meno chance di sopravvivenza rispetto alle donne. In pochi sanno che anche gli uomini possono ritrovarsi a fare i conti con quella che è la malattia oncologica più frequente tra le signore. In Italia sono all’incirca 500 ogni anno e, a parità di diagnosi e accesso alle cure, convivono con un rischio più alto rispetto alle donne alle prese con lo stesso percorso.
Ottobre è stato il mese dedicato alla prevenzione del tumore al seno. Al centro della scena ci sono state le donne. Ma è giusto sapere che anche gli uomini possono sviluppare questa malattia. Le probabilità crescono all’aumentare dell’età, se è presente familiarità per il tumore al seno o se il paziente è nato con la sindrome di Klinefelter (una malattia genetica caratterizzata dalla presenza di un cromosoma X in più che comporta ridotti livelli di ormoni maschili e più elevati livelli di ormoni femminili). Anche una diagnosi di cirrosi epatica, l’obesità, la pregressa esposizione a radiazioni e l’assunzione di farmaci ormonali possono aumentare il rischio. Un’eventualità che, quando si concretizza, rende più irto il percorso terapeutico.
A confermare le maggiori difficoltà che si hanno nel curare un tumore al seno maschile è uno studio pubblicato sulla rivista Jama Oncology. I ricercatori del Vanderbilt-Ingram Cancer Center di Nashville hanno confrontato gli esiti della malattia in due gruppi di pazienti ammalatisi tra il 2004 e il 2014: uno composto da poco più di 16mila uomini, l’altro da oltre 1.8 milioni di donne. Quello che è emerso è che, in ogni fase della malattia, il tasso di mortalità tra gli uomini era più alto rispetto a quello registrato tra le donne. Nel caso specifico, gli autori hanno considerato la sopravvivenza a tre e a cinque anni, oltre quella complessiva. Il divario è emerso fin dal primo step (86.4 contro 91.7 per cento) ed è risultato via via più ampio con il passare del tempo (dati complessivi: 45.8 rispetto a 60.4 per cento).
Se il ritardo diagnostico può in parte spiegare la maggiore difficoltà a superare la malattia negli uomini, anni di esperienza portano gli esperti a osservare che anche la risposta maschile alle cure è inferiore. E ciò nonostante la neoplasia più frequente tra di loro – nell’85 per cento dei casi – sia quella che meglio risponde alle terapie. Ovvero: il tumore positivo per i recettori degli estrogeni e del progesterone, aggredibile con diversi farmaci (inibitori delle aromatasi, tamoxifene, analoghi di Lhrh o Ghrh, Fulvestrant). In teoria, dunque, gli uomini dovrebbero avere risultati quanto meno uguali a quelli che si registrano le donne. E invece non è così. A dare meno chance, secondo gli esperti, potrebbe essere anche la più frequente adozione di comportamenti a rischio: dall’abitudine al fumo al consumo di bevande alcoliche, dall’inattività fisica all’obesità.
La rarità della malattia tra gli uomini ha fatto in modo che questi ultimi non fossero quasi mai coinvolti negli studi clinici. Da qui l’invito della Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, a «incrementare l’arruolamento nella sperimentazioni», dal momento che «i farmaci disponibili sono stati testati soltanto sulle donne». E non è detto che funzionino ugualmente: i meccanismi biologici alla base della malattia tra gli uomini quasi certamente differiscono da quelli che si rilevano tra le donne. «Per comprenderli, e poi eventualmente modificare le strategie terapeutiche, occorrono maggiori investimenti nella ricerca – afferma Xiao-Ou Shu, epidemiologo del Vanderbilt-Ingram Cancer Center e coordinatore dello studio -. Serve creare una rete tra le diverse strutture oncologiche per poter contare su una casistica sufficiente di pazienti da studiare».