Ucraina. Non è una sorpresa la schiacciante vittoria alle elezioni ucraine dello sfidante senza
esperienza, senza precedenti politici e che fino a ieri la presidenza della repubblica l’aveva vista solamente in tv. Ma è stata proprio l’interpretazione in una serie televisiva del ruolo di un insegnante diventato inaspettatamente presidente a portare Vladimir Zelensky, l’attore, al successo. Aveva dominato il primo turno, schiacciando il presidente eletto e umiliando Yulia Tymoshenko. Al ballottaggio oggi ha travolto Petro Poroshenko, il re della cioccolata che pure nel 2014 era stato votato dagli ucraini, non tutte le regioni, con un’elezione farlocca per cercare di legittimare un sanguinario colpo di stato voluto e sostenuto dall’occidente chiamato «rivoluzione di euromaidan», quella che aveva cacciato, cercando di ucciderlo, il legittimo presidente Viktor Yanukovich col pretesto di aver rallentato l’avvicinamento del paese all’Europa.
Zelensky ha riportato oltre il 70% dei voti, asfaltando il suo avversario. Poroshenko ha già ammesso la sconfitta, e Zelensky ha già pronunciato il suo primo discorso da presidente in pecotore, rivolgendosi ai Paesi dell’ex Unione Sovietica dicendo: «Guardateci, tutto è possibile!»). Così, dopo Viktor Yushchenko, che dopo la rivoluzione arancione nel 2004 (assieme alla Tymoshenko primo ministro) promise di voltare pagina e si dimostrò incapace e dopo la parentesi di Yanukovich, la più importante ex repubblica sovietica dopo la Russia si ritrova in mezzo ad un mare di guai con una guerra civile in atto ed una tracollo economico spaventoso. A differenza di Poroshenko e degli altri candidati in lizza al primo turno (erano ben 39), Zelensky non ha fatto promesse concrete, non ha preso impegni scritti, tanto da essere stato accusato ferocemente dai suoi avversari per questo. Un attore comico, si è detto, un personaggio del tutto inadeguato a guidare l’Ucraina. Ma proprio la sua mancanza di promesse gli lascia le mani libere. Ha giurato, come tutti hanno sempre fatto sulla scena politica, di difendere il sacro suolo del Paese, ma non ha mai detto di non voler trattare concretamente con i separatisti del Donbass e con il Grande Nemico della porta accanto, quel Vladimir Putin col quale prima o poi vanno fatti tutti i conti da questa parte del mondo ma che lo lascerà bruciare da solo. Mosca, nonostante consideri l’esito elettorale una chiara dimostrazione della volontà di «cambiamento» dei cittadini ucraini difficilmente riconoscerà il risultato delle elezioni. Trattare dunque sul Donbass, probabilmente tenendo presente il fatto che nonostante la retorica nazionalista che ha imperato durante la campagna elettorale, la Crimea è persa. D’altra parte, la penisola che si slancia nel Mar Nero è sempre stata russa. Fu il leader sovietico Nikita Krusciov nel 1954 a «regalarla» alla natìa Ucraina nell’ambito di una riorganizzazione delle repubbliche sovietiche. Tanto, tutto rimaneva comunque nell’Urss, la grande patria del comunismo. Poi, con lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel 1991, milioni di russi etnici che abitavano quella penisola si ritrovarono tagliati fuori da Mosca, «in un altro Stato».
La convivenza tra russi e ucraini andò avanti per anni tra alti e bassi, anche perché nel resto del sud-est del paese milioni di ucraini erano russofoni, cioè parlavano russo e guardavano comunque alla Russia come a un punto di riferimento naturale. Poi nel 2014 il meccanismo si ruppe, con la nuova rivoluzione a Kiev, questa volta in chiave violentemente anti-russa, colpo di stato è il termine più appropriato. Si diceva che la lingua sarebbe stata proibita (e Poroshenko lo ha ripetuto anche nell’ultima campagna); sulle barricate a Kiev comparvero i nazionalisti con gli elmetti nazisti in testa. La Crimea decise di andarsene: tenne un referendum senza essere autorizzata dal potere centrale e chiese l’annessione alla Russia. Il tutto fu facilitato dall’intervento più o meno segreto di nutriti reparti armati russi senza mostrine ufficiali. Rimane il Donbass. Per la precisione quella parte del bacino carbonifero e industriale che si trova nelle autoproclamate repubbliche indipendenti di Lugansk e Donetsk.
Bisognerà riaprire una vera trattativa e, soprattutto, dare attuazione alle intese già raggiunte a Minsk sotto l’egida di Germania, Francia e Russia. Finora il parlamento di Kiev aveva sempre bloccato la concessione di una larga autonomia alle regioni ribelli (su modello del nostro Alto Adige – Südtirol). Zelensky dovrà sperare in nuove elezioni (la Rada è in scadenza a ottobre) per creare una sua maggioranza. Ma, probabilmente, cercherà di mandare a casa anticipatamente i deputati per far cavalcare al suo partito l’onda del successo di oggi. A Poroshenko non gli è sembrata vera l’occasione per svignarsela lasciando la patata bollente delle mani di Kolomoisky, si perchè sarà proprio l’oligarca Kolomoisky a tirare i fili di Zelensky