Da anni ormai Zara è uno dei leader del settore dell’abbigliamento low cost, con 2.232 punti vendita sparsi in 93 paesi, e un fatturato di quasi 21 miliardi. Insomma, la catena, appartenente al gruppo Inditex, fondata nel 1985 da Amancio Ortega e da sua moglie Rosalía Mera sembra non conoscere crisi, anche perché le collezioni di vestiario e accessori proposte ogni stagione dimostrano un’attenzione particolare a quelle che sono le tendenze del momento, coniugate con un’ottima gestione dei prezzi che la rendono sempre uno dei punti fermi per lo shopping delle donne di tutto il mondo.
Eppure, dato che non è tutto oro ciò che luccica, anche il famoso brand spagnolo si è trovato, negli anni, coinvolto in più di una controversia sui metodi di trattamento riservati ai dipendenti, soprattutto per quanto riguarda orari e condizioni lavorative. In più, un’indagine condotta da un centro di ricerca newyorchese aveva puntato il dito anche a presunte discriminazioni razziali, attuate proprio negli store della Grande Mela, ai danni dei clienti afroamericani, trattati peggio rispetto ai bianchi.
Ad ogni modo, che i dipendenti Zara, più di 78 mila in tutto il mondo, non se la passino proprio benissimo a lavorare per il gruppo iberico sembra essere confermato anche da una commessa italiana, N.B., che naturalmente ha preferito rimanere anonima ma che ha confidato tutto il proprio malessere a Francesco Iacovone, sindacalista dell’Usb, che da anni segue l’evoluzione della Grande Distribuzione Organizzata. Il racconto della donna parla di orari massacranti, di turni improponibili che hanno finito con il mettere a repentaglio tutta la sua vita privata.
“Sì, lo stipendio è buono e pagato regolarmente”, ammette la protagonista della testimonianza, ci sono i bonus economici e Zara è considerata “la meno peggio” del settore (non che questo sia consolante, ovvio). Però. Il però c’è, ed è grosso come una casa, se la commessa arriva a dire di sentire di “avere un cappio intorno al collo“.
Lavoratrice part time, con turni variabili, la donna lavora per la compagnia da più di 10 anni, nel frattempo ha messo su famiglia, rasserenata dalla sicurezza data dal cosiddetto “posto fisso”; ma proprio questi turni, flessibili ma rigidissimi allo stesso tempo, le impongono di lavorare la domenica, la sera, di rientrare tardi, di non riuscire a passare del tempo con la sua famiglia, con il marito e il suo bambino che, oltre tutto, a 4 anni si scopre avere una grave difficoltà del linguaggio. Quando se n’è accorta, fra un turno e un altro, ha fatto iniziare una terapia al figlio, lunga e costosa, nella speranza di riuscire ad avere delle agevolazioni dall’azienda, per riuscire a stargli più vicino di quanto non fosse riuscita a fare fino a quel momento.
“Non mi hanno riconosciuto la 104 [il congedo straordinario dal lavoro concesso ai lavoratori dipendenti che assistono familiari con grave disabilità, retribuiti ndr.] ma solo una legge minore, perché mancano i soldi“. Da lì, è stato per lei un lento, inesorabile precipitare verso l’inferno.
“Ancora turni massacranti, ancora sorrisi ai clienti.
Il mio matrimonio è andato in crisi e ho subito tutto il dolore della separazione mentre continuavo a sorridere quotidianamente ai clienti.
Poi arriva il divorzio e la decisione del giudice: data la cattiva condotta del mio ex marito e il mancato pagamento degli assegni per i bambini, mi viene riconosciuto l’affido esclusivo“.
Che però, naturalmente, mal combacia con l’impegno lavorativo. N. si confida con la sua responsabile, insieme, carte e documenti del tribunale e del neuropsichiatra alla mano, chiedono e ottengono, temporaneamente, dei turni agevolati per accudire i figli. ” In questo lasso di tempo però Zara firma un contratto integrativo, dove si impegna a organizzare il lavoro in modo equo“. Turni agevolati che tuttavia vengono intesi come “equi”.
“Non chiedevo di lavorare solo la mattina quando i miei figli sono a scuola – spiega la donna – lavoro nel commercio e so che devo fare dei turni anche la sera, ma non tutti i giorni! Non più sere che mattine. Turni equi per me significa fare due sere e due mattine, domeniche comprese. Non chiedo la luna. Penso sia possibile, visto che in altri negozi lo fanno“.
Invece, l’ennesima batosta: Zara dice no alle sue richieste, anzi le anticipa che dal prossimo novembre 2017 non le garantiranno più neppure l’equità. Se non le sta bene, le fanno capire chiaramente, l’unica possibilità è cercare lavoro in un altro punto vendita.
“Come farò? Come porterò mio figlio a fare la terapia? Chi parlerà con la neuropsichiatra? Chi gli preparerà la cena quando sarò in negozio? Non ho soldi per una babysitter. Né turni fissi per poter cercare un altro lavoro.
Da qui lo sfogo rammaricato, amaro, di una donna che vuole farcela, ma che si sente soffocata, oppressa da una lotta serrata contro la clessidra, con il tempo che stringe e una decisione che potrebbe, ancora una volta, incidere sulla sua vita: tornare ai turni soliti, massacranti, di sempre, oppure chiedere un trasferimento, per cercare, forse maggiore comprensione. Senza nemmeno essere sicura di trovarla, e con un figlio che necessita di una cura, ma soprattutto di lei.
Si dice che il ‘lavoro nobilita l’uomo’ – dice lei amara – ma forse la donna no. A me sta togliendo tutto.
- Fonte: Roba da donna